Poesie

Cinquanta gocce di Pensieri,
poesie di Giuseppe Caccamo
a cura di Paolo Rausa

Sono gocce di rugiada queste poesie di Giuseppe (Pippo) Caccamo, gocce che inumidiscono il vorticoso andare della vita ed evitano il disseccarsi dei sentimenti e delle emozioni. Sono lacrime, versate e trattenute a stento, quando il poeta descrive i rapporti familiari che esprimono il grande affetto che lo muove verso la “musa e compagna di mia vita”, verso i figli che crescono, verso la madre – ora il ricordo si fa dolce, tenero e infine struggente -, e verso il padre, nei confronti del quale nutre comprensione e rispetto. Questo è il filone più intimo della raccolta, che si completa con le espressioni di profonda amicizia nei ricordi della fanciullezza trascorsa a Messina. Accanto a questi elementi, notevoli sono le poesie dedicate ai problemi sociali che attanagliano la nostra società e il mondo intero: la fame, le guerre, la mancanza d’acqua, gli infortuni sul lavoro, ecc., da superare – sembra indicare il poeta – in una visione di cooperazione e di pace, riflesso di una sensibilità nata durante le giovanili rivolte studentesche e maturata nel corso degli anni nella funzione di attento e vigile operatore sociale. Infine le riflessioni intime, i pensieri profondi di un uomo che tende lo sguardo oltre le vicende umane sulla immensità dei paesaggi naturali, in una prospettiva che si interroga sulla ineffabilità delle esperienze umane e cerca appagamento nelle armonie dell’universo. Omaggio egli tributa allo scrittore Charles Bukowski, alle sue poesie e farneticazioni di reietto della terra, di ultimo e marginale individuo che vive in perenne stato di ubriachezza e alla mercé dell’amore prezzolato di infime prostitute. Il poeta americano, celebrato dalla beat generation e degno esponente di quella corrente dei cosiddetti poeti maledetti che spingevano la vita e l’arte all’eccesso, esprime qui l’alto significato attribuito alla poesia e alla letteratura, – e in questo concorda l’autore – come ultime, estreme ancore di salvezza in un mondo destinato alla perdizione. Contro queste visioni cupe e distruttive allora non resta che l’immaginazione e il sogno, il ”vagare il firmamento” che costituisce una dichiarazione di intento e di poetica dell’autore. Il concetto è più volte ripercorso nelle sue poesie, per es. in Senza tempo dove l’”anima vagabonda del niente”, o in Un rifugio per morire, una delle poesie più belle e significative, alla ricerca del “luogo dei vagabondi ai margini della follia, dei poeti senza pudori”, in Innamorarsi è “l’anima che vaga nell’oblìo”, mentre in Respirare l’autore dichiara che “domani mi farò fiore per rimanere solo in compagnia del vento… valicando i confini della mente, dei sensi, delle emozioni.” L’animo del poeta è volto in buona parte al dolce e profondo sentimento dell’amore, espresso con metafore vegetali e nei paesaggi naturali, che fanno inebriare, e nei quali il poeta si identifica sino a sperdersi, anche quando “passavano storie di vite consumate in una notte di effimero amore” in L’amico mio, o nel rimpianto verso un amore che è trascorso ma il suo ricordo rimane vivo, forse sperando “Chissà se un giorno i nostri occhi si incontreranno ancora” in Comunque bella, chiedendo tempo per insegnare “la differenza fra sogno e realtà” in Dammi tempo. Altrove è il profumo dell’innamorata che inebria, colto “nell’aria che respiro e nel vento che mi accarezza mentre parla di te”, mentre in Toccami il cuore il poeta si prefigge di catturare “l’essenza del tuo respiro per deporlo nello scrigno dei sentimenti” e il sogno dolce dell’amore si trasfigura negli elementi naturali del vento e della pioggia, che “bagna il viso e inumidisce la sabbia”. Queste alcune suggestioni, espresse anche nelle forme brevi dell’epigramma, caro ai lirici alessandrini (vedi Brivido, Volare, Sognare, Sussurro e Incanto) e al poeta latino Orazio, del quale Caccamo mutua il concetto di saggezza come equilibrio di passioni: “Egli scrive messaggi con lo sguardo e sembra sfiorar l’ignoto quando sussurra al vento le sue liriche sfuggenti”. Spesso è invece il sentimento di malinconia e di solitudine che affiora e che diventa struggente nel ricordo lieve della sorella morta quando – scrive – “cullavi ilarità, sogni/e illusioni” in Soffio d’amore e in quello triste ma intenso della madre, “un punto fermo nel deserto arido della vita”. Il paese di Perinaldo è nel cuore del poeta, descritto con amore e abbandono: “Forse…, sarà la notte delle stelle, il letargo delle strade, il profumo acre delle olive o la dolce essenza di mimose e rose”. Le sue poesie, come dice egli stesso, assomigliano a “gocce di pensieri che corrono verso il mare dell’immaginazione”, ancor meglio definite in Io scrivo per Me come “ricordi, gocce di pensieri e creature che nascono dentro di Me e che, più le racconto, più ricrescono”. San Giuliano Mil., 15 luglio 2011

Mendicante di sogni  poesie di Sergio Nigretti
La poesia come riscatto e redenzione
di Paolo Rausa

Quando la poesia incontra la vita, allora diventa strumento di redenzione, di riscatto sociale. Ho conosciuto Sergio Nigretti per caso quest’anno in una riunione della Commissione Cultura della II Casa Circondariale di Milano-Bollate. Insieme ai suoi compagni è stato subito entusiasta quando ho proposto la rappresentazione della conferenza/spettacolo “Natura e cultura nel mondo romano: la parola agli autori latini”. La loro reazione mi ha destato stupore e meraviglia, la piacevole sensazione che forse la mia proposta cercava di accogliere la domanda di sapere e di conoscenza che i cosiddetti “dannati della terra” rivolgono al mondo esterno. Quelli che poi diventeranno i volti familiari di Sergio, Ciccio, Marco, Antonio, Nino, Claudio, Enrico, Marco, ecc. mescolati a quelli dei volontari Michele e Renato e delle operatrici culturali, Catia e Anna per tutte, ci sembravano, a me e all’attore Gerardo Placido che mi aveva accompagnato in questa insolita avventura socio-culturale, allora visti per la prima volta, dei volti indistinti. Nessuno di noi osava chiedere chi fosse chi o che cosa. La follia della nostra proposta, come sottolineava Gerardo Placido, stava proprio nel fatto che i contenuti dei testi, scritti da autori classici latini e greci, erano così impegnativi e drammatici che il teatro ora non aveva forse più il coraggio e la forza di affrontare. Quella nostra proposta intrepida è stata ricambiata da una grande dose di umanità, quella vera, che quell’esperienza ci ha iniettato. Il 4 giugno, in due rappresentazioni, una pomeridiana per gli ospiti interni e una serale per gli esterni, abbiamo esordito nel teatro ligneo del carcere, un teatro che ricordava, guarda caso, il teatro romano delle origini. Il gruppo di attori improvvisati è stato veramente lodevole, sembravamo una compagnia ben collaudata e ricca di rappresentazioni già fornite nei più quotati teatri nazionali. Al termine mi ha colpito la frase pronunciata proprio da Sergio Nigretti, che dopo aver ringraziato tutti, proprio tutti, ha terminato, rivolto a noi: “Grazie! Ci avete regalato una serata di libertà!”. Ecco a cosa serve il teatro, a uscire fuori di sé, a rappresentare le emozioni, le aspirazioni, le aspettative di ognuno di noi e a dare il meglio di sé. Il teatro e la poesia: possiamo istituire un parallelismo nel caso di Sergio Nigretti? Credo di sì. Sergio attraversa con la poesia l’animo umano. I suoi abissi più reconditi e riemerge alla vita. La poesia per lui è introspezione dolorosa, consapevole scandaglio di una vita spesa nell’errore. Alla ricerca di un amore desiderato e forse irrimediabilmente perduto. O forse no? Il ricordo a volte dà tregua, quel profumo voluttuoso, quel bacio rubato la cui dolcezza ancora inebria, il dolce frutto dell’amore, i figli, che rappresentano un’isola di serenità in un tourbillon di sogni infranti, di disillusioni, di amarezze, di pianti, di singhiozzi, di sentimenti che esprimono una passione spenta per una figura femminile che rivela una ferita ancora aperta e bruciante. Allora le pareti del carcere assumono un significato che travalica la barriera fisica di separazione dal mondo per assumerne uno universale: di perdita della condizione umana, alla disperata ricerca di una rappacificazione e di una riconquistata armonia con il mondo degli affetti. Il linguaggio adoperato da Sergio Nigretti è secco, essenziale, non ammette mediazioni. I concetti espressi non concedono tregua, brevi, asciutti, disperati se a volte non comparisse una qualche speranza di rasserenamento: un filo di speranza (in Divino), la serenità (in Simone), l’innocenza piena (in Serena), il dondolo che culla (in Sara), l’aggrapparsi tenace al tempo (in Aggrappato), il desiderio spasmodico di coltivare le emozioni (in Nel tragitto), la dolente umanità di una vita che ci lascia (in L’ultima carezza), il desiderio voluttuoso di riposare in un letto di rose rosse (in E ora lasciatemi), fino a quella che sembra la resa finale ma che si rivela il suo contrario, la rivendicazione dell’amore e della vita come pienezza, consapevole che “dove l’emozione non vive restano briciole che lacerano i sogni” (in Non esiste). Certo sorprendono e inquietano i toni disperati, le felici metafore adoperate per sottolineare le sue condizioni di uomo di pena: “sbattono negli scogli dei ricordi detriti del passato, il loro ricrearsi dalle ombre di rimorsi in solitudini” (in Pesa nell’anima), il tormento della fine dell’esistenza, la negazione della fine stessa di una vita ridotta a granelli di polvere nel deserto (in Tormento), il pianto “rosso” tra polsi offesi da cocci di vetro (in Tra i resti), l’immagine potente della “pena che sveste la vita” (in Sguardo caduto), il proposito dichiarato di guarire ferendosi (in Mi guardo), il ricordo dei piccoli rami rinchiusi nei cassetti dei sogni abbandonati (in Infanzia), l’attimo rivolto all’unico desiderio, quando “lieve nella bocca si consuma il bacio” (in Conserverò), il richiamo alla memoria che conserva solo “briciole sparpagliate sul tavolo della mente” (in Mente buia), i pensieri che con una potente metafora sono rappresentati come “cardini arrugginiti che cigolano e tremano nel buio” (in Senza giorni) e la suggestione efficace che offrono “le mani stanche di scavare la vita” in Solchi di terra), l’immagine autunnale tratta dall’osservazione ungarettiana delle foglie che “volteggiano disperate” che rappresenta la condizione labile dell’esistenza umana (in Danza che muore), infine il poeta rappresenta il tormento di una notte, trascorsa al buio e “consumata fino all’ultima stella” (in Ho pianto). Potenti immagini e potenti suggestioni, abbiamo detto, con un uso secco ed essenziale del linguaggio, che esprime in tutta la sua complessità il desiderio dell’animo umano di affrancarsi dalle sue condizioni di reclusione fisica e spirituale, ma che sa intenerirsi al pensiero di un “Fiore nel grembo” quando il desiderio si fa più pressante e incontenibile ed evoca, nostalgicamente, il tempo in cui “dagli occhi sbocciavano fiori, le margherite del nostro amore”.

L’umbra de la sira
Poesie dialettali salentine, di Fernando Rausa
Edizioni Atena, Poggiardo 2009
a cura di Paolo Rausa

Introduzione di Rita Pizzoleo*

… è proprio la Vita, nelle sue molteplici sfaccettature,
ciò che si assapora soffermandosi a riflettere sui versi
di Fernando Rausa…
…Acuto osservatore della realtà che lo circonda,
Rausa la scandaglia con la sensibilità e la profondità
di pensiero proprie di chi, innamorato della vita, del
suo paese, della sua gente, ne esalta con orgoglio i
pregi e ne denuncia, con amorevole e inclemente spirito critico, i mali ai quali non intende rassegnarsi…… L’aver privilegiato molto spesso il bozzetto di vita paesana non fa di Rausa un poeta di “occasioni”, poiché mai egli si accosta ad un soggetto poetico senza sentirne “l’estru”. E’, quello di Rausa, un “caso” particolare di poeta dialettale, la cui opera non intende semplicemente divertire il lettore, né soltanto sottrarre all’oblio del tempo personaggi, usi e costumi che pure rappresentano un patrimonio da custodire, ma creare “memoria storica”, senza la quale è difficile sviluppare
quello spirito di “identità” e “appartenenza” prima, di “partecipazione” poi, presupposto indispensabile per la crescita umana e civile di qualunque comunità.
… (da qui l’esaltazione) del valore della cultura, senza la quale la libertà è solo un’illusione. Ai giovani, in particolare, Rausa affida il suo testamento poetico, “Alli vagnoni ca studiane”, chiamati a fare i conti con nuovi saperi (“Sarà percé ui siti l’avvenire!”), senza risparmiare accuse ai docenti universitari: “Li ‘nsegnanti / hannu la fiffa / ca la verità /è curaggiu…”, e poi ancora: “cinca ‘nsegna aie capire/ ca lu studiu / è libertà! / L’Università / è la scala / temperata / de cuscenza: / la paura cu’ lla scienza/è nnu fattu / ca nu’vva!”…
… Una sola riforma servirebbe a questa umanità malata: “La riforma de la vita”, “percè sta vita / pe’tutti fose nata. / Nun ci aie dd’essere / ci scobba e cinca dorme, / ci bona vita face / e cci la ‘ngrata! ;“a cci lu intra tocca / e a cci la scorza!” scrive nella poesia “Concorsu pe’ llu manicomiu”…
Profondo osservatore delle cose del mondo, innamorato della vita e dell’umanità: credo sia questo il segreto della sua grandezza poetica!

* Docente di italiano e storia nella Scuola Media Statale di Poggiardo e animatrice del laboratorio linguistico dialettale.

“Terra mara e nicchiarica”
di Fernando Rausa,
scritte nel dialetto salentino di Poggiardo (Le)
con traduzione in Italiano a cura di Paolo Rausa
Terra mara e nicchiarica (Terra amara e desolata), che dà il titolo alla raccolta, è il primo verso della po-esia “L’oru de lu Sud”.  La ricchezza della piccola comunità poggiardese (spalle e forti braccia e cuori di monte) si contrappone alla visione di mesto abbandono in cui versa il paese, rappresentato em-blematicamente da un vecchio, solo, che scuote la testa nell’indifferenza di una classe politica inca-pace di comprendere le ragioni e le necessità del ceto popolare, tanto che anche un refolo, triste, si allontana vergognoso dal centro abitato.
Una voce fuori dal coro il poeta dialettale poggiardese Fernando Rausa (1926-1977), secondo il Prof. Donato Valli, già Rettore dell’Università degli Studi di Lecce, che ha curato l’introduzione al volu-me, perché non immediatamente classificabile all’interno della tipologia canonica letteraria. La sua voce rompe la barriera delle convenienze salottiere per alzare, intemerata, il vessillo della sua verità di uomo, prima ancora che di letterato.
Il poeta confessa di essere innamorato della poesia, alla quale attribuisce l’alto compito di indicare la possibilità di un mondo più libero, più giusto, più umano e ad essa giunge per intuizione, non per studio e approfondimenti tecnici. La sua forza esalta l’istinto, che lo porta ad accettare, della poesia, l’essenziale, cioè quella sorta di musica interna determinata dalla misura ritmica e l’adozione di rime comuni, popolari, per lo più baciate.
Nelle sue composizioni si snoda la cronaca d’un paese reale, semplice, sofferente per disugua-glianze e mancanza di prospettive di progresso. Perciò egli sente il suo essere poeta come un impe-gno morale, teso a sconfiggere le ingiustizie e a purificare la società da ogni menzogna, da ogni so-pruso.
Da qui l’esaltazione della libertà rappresentata via via dalle immagini della rosa profumata, della bellezza carnale, della fertilità della terra, del sole ristoratore, della luce sfolgorante, del cielo infinito, nel quale si dissolvono i desideri degli uomini. Il punto di osservazione privilegiato rimane il paese natale di Poggiardo, situato a sud di Lecce, vissuto  come nucleo primitivo solidale il quale, però, invece di rappresentare un luogo di serenità e di convivenza possibile, finisce col provocare ingiustizie e dolori, sconvolto dalla più dolorosa e straziante anomalia costituita dal diffuso fenomeno dell’emigrazione all’estero. L’oro del Sud, la sua forza lavoro, la sua capacità di amore e di resistenza, si dilania perché è la conseguenza della rottura dell’unità familiare. Nel momento in cui il padre è costretto, per trovare lavoro, ad abbandonare i propri figli, non solo si è rotta drammaticamente questa unità ma anche la continuità sociale fra vita e lavoro. Intorno a questo triste fenomeno l’autore costruisce la profonda delusione della quale è impregnata la poesia, che rimane comunque l’ultima speranza di riscatto e di rinnovamento.

Il volume è costituito da poesie scelte per omogeneità di argomenti e di ispirazione fra quelle già pubblicate e autoprodotte dal poeta, dalla raccolta Poggiardo mia e L’occhi ‘nthra mente nel 1969, a Fiu-ri… e culuri nel 1972 e infine a Guerra de pace nel 1976, che termina con l’appassionata dedica a  Pog-giardo, evocata nell’aspetto di Terra Madre che apre, accompagna e chiude il suo ciclo vitale.

Inoltre vi è annotata una traduzione in italiano, utile come riferimento alle giovani generazioni e a chi voglia mantenere saldi i legami o avvicinarsi, anche attraverso la conoscenza della lingua verna-colare, alla cultura e alle tradizioni salentine.
                       
Pubblicato dall’Editore Manni di San Cesario di Lecce, nel Novembre 2006 (pp. 164, € 17,00)