“Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”, saggio di Marcello Bortolato ed Edoardo Vigna

 di Paolo Rausa
Uno sguardo duplice dentro le carceri italiane questo saggio, dal punto di vista del giornalista Edoardo Vigna, firma del “Corriere della Sera” e caporedattore del magazine “7”, e del magistrato Marcello Bortolato in servizio dal 1990, da tre anni presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze. Non è usuale che ci si soffermi a indagare sulle condizioni di reclusione del nostro Paese, senza visioni precostituite, solo preoccupate del fatto che i circa 54 mila detenuti vivono condizioni di vita  non rispettose delle norme in vigore. La Corte di Giustizia europea ha condannato l’Italia per non aver ottemperato alle condizioni minime di salute in cui vivono esseri umani che, ricordiamolo, sono portatori di diritti, come tutti noi. Non solo vi è un problema di sovraffollamento nelle carceri italiane – ci sono 10.200 persone in più rispetto alla capienza massima prevista -, messe sotto accusa per la mancanza del minimo spazio vitale, ma anche il rischio di contrarre il contagio da coronavirus. Una condizione che è sfociata nel marzo scorso nelle rivolte che hanno causato 13 morti. Il saggio prende in considerazione frasi comuni, di uso popolare, e cerca di confutarle, a partire dal fatto che non già il buon cuore ma la massima legge italiana, la Costituzione, all’art. 27 definisce la funzionalità della pena e del luogo dove essa si sconta: reinserire nella società chi ha sbagliato e ha commesso un reato. Non solo quindi per ragioni umanitarie, pure nobilissime, ma nell’interesse della società le prigioni, case circondariali e di reclusione, dovrebbero rispondere a criteri diversi nella loro gestione e finalità. E’ un’aspirazione umana consentire un percorso di redenzione, che ha trovato in buona parte d’Europa modalità di trattamento del detenuto che non è non sottoposto a trattamento feroce e disumano per fargli pagare il suo errore, ma sono attente nel perseguire il suo possibile e auspicabile reinserimento sociale. Egli però deve riconoscere il suo delitto in un processo di immedesimazione, favorito da una serie di provvedimenti: per es. dall’attività lavorativa dentro e fuori del carcere, dai permessi premio, dall’attività culturale e sociale, il teatro soprattutto, e dalle pene alternative, che vanno dagli arresti domiciliari alle attività lavorative e al semi affidamento per consentire il recupero dell’individuo. Perciò le frasi comuni che vengono pronunciate, il cosiddetto populismo penale, devono essere ripensate e corrette. Quante volte abbiamo sentito espressioni del tipo: buttare le chiavi del carcere, lasciamoli marcire in prigione; in carcere si sta troppo bene, si mangia, si beve e si vede la televisione; devono soffrire, devono pagare per ciò che hanno fatto;  alla fine non ci va nessuno in carcere; dentro si vive meglio di fuori; ma che vogliono i detenuti, anche il diritto di fare sesso?; ci vorrebbero i lavori forzati; le carceri sono sovraffollate? E allora che se ne costruiscano di nuove; condannato per omicidio gode di permessi premio, ecc. “Vendetta pubblica”, scrivono gli autori, è naturalmente un titolo provocatorio perché oggi, a differenza di quanto accadeva nei secoli passati, il carcere dovrebbe essere altro. Conducono così un viaggio all’interno della condizione carceraria italiana, dimostrando che in Italia si rimane in carcere di più e che le pene sono più de-socializzanti che altrove. “Cos’è che vuole allora il cittadino? Vuole che una persona quando esce dal carcere sia peggiore o migliore di come è entrata?” – si chiedono. Invece di dire “buttiamo la chiave” perché non si chiede come torna all’esterno il criminale quando ha scontato la pena? La pena come vendetta non è compatibile con uno Stato democratico! Occuparci del carcere vuol dire occuparsi della salute della democrazia, ben sapendo che il detenuto è un cittadino privato della libertà che conserva gli altri diritti. Chi entra nel carcere non è più lo stesso dopo gli anni trascorsi in prigione e quindi non è neppure giustificabile l’ergastolo che è una pena senza fine o meglio a fine vita. Certo non va sottaciuto il dolore per le vittime dei parenti che rivendicano quanto la durezza delle pene sia incomparabile  con il diritto della vita che è stato infranto dal gesto dell’assassino che se la gode con i permessi premio. Come dicono gli studiosi della cosiddetta giustizia riparativa, il male è una catena. Il male del reato genera altro male, perciò non ha senso che lo Stato sia parte di questa catena, che deve spezzare come devono fare le singole persone. Il principio del recupero corrisponde all’interesse della società di far sì che il maggior numero possibile di detenuti non torni a delinquere una volta pagato il proprio debito con la giustizia. “Può esserci un modello di giustizia alternativo alla giustizia penale – si chiedono gli autori – così come la intendiamo oggi?” Tralasciando i reati più gravi o gravissimi (mafia, omicidio, violenza su donne e bambini) a cui giustamente riservare l’idea di punizione, vendetta e sofferenza, per il resto dei detenuti il passaggio decisivo dovrebbe essere il modello di giustizia riparativa: la pena che serve a riparare l’offesa. L’esempio più immediato è quello del Sudafrica post-apartheid con l’amnistia per ricominciare, un po’come successo nell’Italia post bellica rispetto ai crimini commessi nelle rappresaglie dai fascisti e anche nei loro confronti dalle vendette dei partigiani. La giustizia riparativa favorisce la responsabilizzazione del condannato che acquisisce consapevolezza del suo delitto e del danno arrecato, dichiarandosi pronto e adoperandosi a ripararlo. L’alternativa è il fallimento dello scopo della pena quando essa si pone esclusivamente come vendetta pubblica. Editori Laterza, Bari, settembre 2020, pagg. 151, € 14,00.                          
San Giuliano Milanese, 08/12/2020

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